Non che ci fosse bisogno (anche) della mia recensione su The Program, il film di Stephen Frears, uscito in Italia lo scorso giovedì 8 ottobre 2015. Tuttavia, visto che sul tema doping e su Lance Armstrong ho scritto diversi post, mi sembra giusto dire la mia.
In 103' Frears non racconta tutta la vita di Lance Armstrong, molto più complessa e intricata, bensì, come da titolo, ci porta dentro al "più sofisticato sistema di doping che sia mai esistito nel mondo dello sport". E lo fa in modo didascalico, asciutto, diretto. Senza inutili ghirigori amorosi e sentimentali (tipici, ad esempio, delle discutibili fiction italiane sui campioni dello sport).
Per chi conosce nei dettagli la storia del doping alla US Postal (e Discovery Channel 2005), si tratta della (non) semplice trasposizione cinematografica dei libri di Walsh, Hamilton, Macur e del Dossier USADA. Per gli altri è la scoperta di un mondo del ciclismo malato, folle, in cui "doparsi era una delle componenti, come riempire la borraccia o gonfiare le ruote della bici" (definizione di Lance Armstrong). In tal senso, le due scene più incredibili, ma allo stesso tempo realistiche, sono quelle della flebo fatta in tempi record per abbassare l'ematocrito sotto la soglia del 50% con l'ispettore antidoping fuori dalla porta, e la messa in scena dell'autobus con la gomma bucata per consentire alla squadra di effettuare la trasfusione in un luogo e in un momento insospettabili: "Il bar è aperto".
La ricostruzione di Frears è curata nei minimi dettagli. Per fare un esempio, le maglie delle squadre sono quelle originali. A cominciare da quelle della Gewiss alla Freccia Vallone del 1994, la corsa della svolta (vedi). Ed è proprio da qui che inizia il racconto di Frears. Come anticipato, il regista si è concentrato quasi esclusivamente sull'aspetto doping, dando spazio solo ad alcuni argomenti collaterali della vita di Armstrong (la lotta al cancro con Livestrong e la causa con la Tailwind Sports: cameo di Dustin Hoffman). Nessun riferimento all'infanzia complicata, al rapporto con la madre (citata in una sola occasione), solo sfiorato il tema fidanzate-mogli. Giusto così.
Ben Foster, l'attore che interpreta il texano, si è calato molto bene nel ruolo, specie se si considera che era digiuno di ciclismo. L'Armstrong che ne esce fuori è credibile, anche se forse - addirittura - meno autoritario e prepotente di quello descritto nei libri sopracitati (vedi lacrime post terzo posto al Tour 2009). Per i più pignoli, qualche piccolo errore lo si può anche trovare (Freccia Vallone con un tratto di pavè della Roubaix, Michele Ferrari che inietta l'EPO, scena al centro di una disputa legale tra lo stesso Ferrari e la produzione, "Motoman" che consegna i farmaci proibiti durante il primo Tour vinto), ma sono imprecisioni trascurabili nell'insieme della pellicola.
Fondamentali, e ben interpretati, i ruoli di David Walsh e Floyd Landis. Fa sempre effetto pensare al fatto che, alla fine dei conti, se Armstrong non fosse tornato a gareggiare nel 2009 o se avesse ingaggiato Landis all'Astana, probabilmente l'avrebbe fatta franca e le denunce di Walsh sarebbero rimaste catalogate alla voce "calunnie" (come evidenziato nel bel parallelo processuale-arbitrale). E fa ancora più effetto pensare a come una persona che visto la morte in faccia - forse anche a causa dell'utilizzo di doping - possa, una volta tornato alle competizioni, assumere sostanze dopanti in modo ancora più massiccio e "scientifico".
Insomma, un film da vedere per capire cos'è stato il ciclismo di quegli anni e per conoscere nei dettagli la storia di un antieroe sportivo e non del solito campione-modello.
Un ultimo aspetto che va rimarcato riguarda il comportamento dei media e delle stesse istituzioni dinanzi al doping. Armstrong è stato smacherato grazie alle inchieste di un giornalista irlandese e al portentoso lavoro investigativo dell'USADA, l'agenzia antidoping americana. Provate a pensarci. Gli americani hanno lavorato a fondo per trovare delle prove schiaccianti e distruggere un loro mito. L'esatto opposto di quanto avviene in Italia dove - eccezion fatta per Eugenio Capodacqua e Marco Bonarrigo - non esiste il giornalismo sportivo d'inchiesta. Non esiste per pigrizia, incompetenza e convenienza. Anziché approfondire gli aspetti medico-scientifici legati al doping e quelli giuridico-processuali, si preferisce puntare al complottismo, alla dietrologia spicciola che svia dai fatti e dalle evidenze processuali. Con una spruzzata di retorica, populismo e sentimentalismo che da noi non manca mai (ogni riferimento al modo di raccontare le vicende le vicende Pantani è voluto).
Meglio, molto meglio il giornalismo di Walsh e la pellicola di Frears.
Ps, "Il Programma" ha travolto tutto quanto fatto da Armstrong nel corso della sua carriera. Tuttavia, ed è un aspetto che Frears ha saputo cogliere e sottolineare, il texano con Livestrong ha saputo dare forza e speranza - oltre che contribuire in modo cospicuo alla ricerca - a migliaia di persone alle prese col "bastardo" (cit.). Anche questo è stato Lance Armstrong.
LIBRI E APPROFONDIMENTI SU LANCE ARMSTRONG
Nei giorni scorsi è uscito "The Program" - il libro di David Walsh, versione aggiornata "Seven Deadly Sins: My Pursuit of Lance Armstrong", testo che ha ispirato Frears.
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