Non Djoko più (di Simone Basso)

Deja vu garantito l'ultima domenica di Gennaio in quel di Melbourne, roba da "Groundhog Day" (il film con Bill Murray e Andie MacDowell), per l'ennesima finale Djokovic-Murray: la quarta (!) in sei anni.
Vinta dal più forte, sempre lo stesso (il serbo), nell'unico parziale - il secondo - giocato sul serio.
Un manifesto programmatico del robotennis imperante e del dominio di Nole: scambi estenuanti, di pressione da fondo campo, tutta l'enfasi sulla battuta (soprattutto la seconda di servizio) contro ribattitori di lusso e un braccio di ferro che gira su un rally - durissimo - di trentasei colpi.
Murray, reduce da sette ore e mezza di pallate tra semi e quarti (opposto rispettivamente a Raonic e Ferrer), e con lo svantaggio del giorno in meno di riposo, cortesia di organizzatori talpe, si immola negli ottanta minuti del set.
Il terzo, malgrado il tie-break, è mancia: Djokovic (che si impone 6/1 7/5 7/6) vince il suo undicesimo Slam e il sesto titolo australiano, cifre impressionanti quasi quanto le diciassette finali consecutive raggiunte negli ultimi dodici mesi e mezzo.
Dall'Australian Open 2015 a quest'anno il cerchio si chiude e rinnova l'evo (di transizione eterna?) del belgradese, numero uno delle classifiche con qualche parsec di vantaggio sulla concorrenza.
Il secondo è proprio lo scozzese, gemello diverso di Novak, nati entrambi nel 1987 ad appena una settimana uno dall'altro (Andy il 15 Maggio, Nole il 22).

Il confronto fra i due, ormai sbilanciato nel palmares e nei testa a testa (22 a 9 per RoboNole), spiega meglio il percorso di Djokovic.
Che, nelle categorie giovanili, le prendeva sonoramente dal britannico: questione di maturità e crescita, psicofisica, e caratteristiche tecniche.
Il primo Murray, tennisticamente più pronto (e dotato) del collega, assomigliava a un Gattone Mecir al quadrato.
Il dinamico duo, promesse certe della loro leva nel bel mezzo del Federerismo, capì che - con l'omologazione delle superfici, le corde luxilon e il resto - il modello non era il power tennis (irreplicabile nella qualità) dell'elvetico bensì il gioco quantitativo, muscolare, della nemesi di Roger, cioè Rafa Nadal.
Murray mise su la corazza, i chili, e arretrò il baricentro tattico, Novak perfezionò piano piano il suo tennis orizzontale.
La differenza, al solito, la fanno i dettagli: la testa, da campione vero, di Djoko e un'operazione alla schiena di Muzza nel periodo più felice del nostro (il 2013, dopo aver sfatato il tabù di Wimbledon).
Da quel momento le loro strade, parallele, si dividono definitivamente.

I primati del Djoker si affastellano, figli del potere del mattatore e di una situazione storica (e ambientale) particolare.
Il serbo utilizzatore finale di un'epoca che ha globalizzato il gioco e sterilizzato le (vecchie) statistiche, banalizzandole.
La vernice Slam di Nole è proprio Aussie, nel 2008, la prima edizione col Plexicushion che sostituì il Rebound Ace: campi in cemento dal rimbalzo alto e costante.
L'ideale per un contrattaccante di altissimo livello, regolare e dalla palla profonda e pesante: il ritratto di Novak Djokovic.
Un fuoriclasse quantitativo, versione moderna di Ivan Lendl, che aggiorna periodicamente l'arsenale.
Per un biennio (2009-10), quando collaborò con Todd Martin, smarrì l'efficienza alla battuta.
Un colpo che lo tradiva nel momentum delle contese serrate, oggi ricostruito e performante: vario, per velocità, precisione e traiettorie, con una seconda notevolissima.
Una delle migliori del circuito, esiziale - per gli avversari - se la accomuniamo alla risposta (eccezionale, degna del migliore Andre Agassi).
Quasi mai difensiva, addirittura propositiva (d'attacco), se il servizio altrui regala angoli comodi.
Rovescio bimane da manuale, strepitoso negli spostamenti (fulminei) laterali, che sublima le doti da passatore; grande diritto nella manovra, meglio quando usato diagonalmente (mortifero contro l'ultimo Federer).
Tennis mostruosamente quantitativo, percentuale, basato sul ritmo puro e con la qualità necessaria per siglarne il successo: Nole ha classe perchè, nei punti decisivi, impone la sua visione tattica (e agonistica).
Non è raro, sul più bello, vederlo uscire dal fortino aggredendo lo scambio.
I difetti, pochi, sono una retroazione dello stereotipo del tennista di oggidì: appena discreto a rete, meglio il posizionamento del tocco e dell'idea istintiva, addirittura mediocre nelle palle colpite al volo.
Goffo nello smash, una carenza tecnica che gli è costata un Roland Garros (nel 2013) e altro...
Una dimensione del gioco, sempre meno tale e dunque atletica con racchetta, che ci fa comprendere gli eoni trascorsi dal primo tennis moderno, quello a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta.
Quindi un talento clamoroso nella ripetizione del gesto, a disagio - come troppi giocatori contemporanei - con l'improvvisazione di ciò che non è pattern.
Di certo non è Bjorn Borg, ovvero il super atleta per eccellenza: non riusciamo a immaginare Nole vincere all'All England Club nei giorni dell'erba colla vecchia mescola, costretto a volleare un paio di volte a game.
Ha bisogno di condizioni più neutre e liofilizzate il possibile (tetto, assenza di vento, campi duri, etc.).
Ricordate l'esperimento della terra blu a Madrid?

Due anni fa, sottolineando la clamorosa mancanza di ricambio generazionale, accennammo alla possibilità di Grande Slam (annuale) del serbo: il crocevia è Parigi, il luogo delle sconfitte più brucianti.
Djoko avrebbe bisogno, per realizzare il poker, di un pò di fortuna; per esempio, evitare il tabellone del Roland Garros 2015 (Nadal, Murray e Wawrinka in sequenza) o un Big Server nella vernice londinese.
La morale (oggettiva)?
Gli Slam, solo vent'anni orsono, erano altro: esistevano gli specialisti e solamente i fuoriclasse riuscivano a competere sulle tre superfici di allora.
Che, progressivamente, sono state omogeneizzate cancellando i puristi del serve and volley e i pallettari.
Un'omologazione suggerita dal marketing e dall'esposizione televisiva che arricchisce (e potenzia) i ras ed emargina gli outsider (e i giovani).
I tabelloni dei major, prima del 2001 (da quel Wimby in poi la modifica), contavano sedici teste di serie ed erano imprevedibili; salendo a trentadue seed, la prima settimana è diventata una (noiosa) routine.
La mancia, importantissima, sono i nuovi materiali che hanno standardizzato lo stile. Il risultato?
Pete Sampras, nelle diciotto finali major disputate, aveva fronteggiato dodici avversari diversi; Djokovic, diciannove finali, ne ha incontrati cinque...
I soliti tre (Federer, Nadal e Murray) ben diciassette volte!
Al netto del giudizio etico, noia sartriana o epica del duello, la proprietà transitiva è defunta: i successi di Sampras valevano un pò di più rispetto a quelli di Federer, che pesavano un pò di più rispetto a quelli di Djokovic.
E la colpa non è del mammasantissima nato a Belgrado, meritevole delle sue vittorie, ma di un sistema - cieco - basato sul denaro e l'ignoranza della storia.
Nel tennis al crepuscolo del Federerismo, persino la matematica è diventata un'opinione.

Simone Basso

Pubblicato da Il Giornale del Popolo il 2 Febbraio 2016

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